28 aprile 2009

L'uomo sogna di volare.



Eppure non vola, mai, o quasi.
Io stessa, quante volte ho sognato di avere le ali?
Ad occhi aperti, restando incantata a guardare il cielo,
oppure nel sonno e svegliarsi con il telefono che squilla
maledicendo chiunque sia dall'altra parte,
e chiunque, se mai esistesse, non ti abbia dato la vita
del Vento,
quella in cui scivoli via ovunque esso ti porti
o dove vuoi tu stessa andare.
La vita del Vento che ti appare di notte,
proiettando i suoi colori sulle palpebre chiuse,
e riaccendendo quella maledetta luce nel momento sbagliato.
Che quando ti svegli, se non è stato il telefono,
ti confonde, ti fa sbattere gli occhi troppe volte,
ti fa grattare la testa,
pensando
"che diamine, cosa stavo sognando?"...
In genere non ricordo i miei sogni,
ormai da qualche anno.
In genere credo che il mio corpo abbia sviluppato
una sorta di autodifesa per certe cose.
Esiste qualcosa di meglio di questo? No.
Sei Vento? No.
Puoi volare? No.

E allora non sognare nemmeno queste cose.
Ma siccome non puoi comandare a te stesso
di restare sveglio, e dimenticare i sogni che inconsciamente
continua a fare,
la miglior difesa è quella di lasciare al giorno
ed al risveglio
il compito di riaprirti gli occhi,
cancellando completamente ciò che vivevi in quella realtà inesistente.
E se non lo cancella, il giorno, lo nasconde troppo a fondo.

Quindi lo senti, che c'è qualcosa che ti manca.
Lo senti che il Vento è da qualche parte,
invisibile, impalpabile, inudibile,
ma c'è.
Eppure non vuoi che quel sogno ritorni alla mente
perchè se lo facesse
ti ritroveresti così.

Proprio così. Come mi sento ora. Come mi sento
adesso, che vedo qualcosa che ho sempre desiderato
fare un passetto verso di me
porgendomi quella mano inafferrabile,
facendomela desiderare
senza mai farmela prendere.

I sogni restano sogni.
E se anche non fosse così,
è meglio crederlo, certe volte.

Per evitare di ferirmi.


Ora questo maledetto senso di vuoto, da dove viene?
E' la solitudine? Una solitudine che non mi ha mai infastidita.
Io amo me stessa,
e amo la compagnia del mio silenzio
o della mia voce.
Questo è ciò che mi ripeto.

Eppure qualcosa che manca c'è, ed a quanto pare
non è lecito che lo capisca.
Quel tipo lassù,
che ci guarda di continuo, ci spia anche quando andiamo al cesso,
a loro dire,
che ci giudica così, pensando di conoscere ogni cosa,
di avere diritto di giudicare la gente quando
lui stesso dovrebbe averci dato
il libero arbitrio,
quel tipo lassù mi impedisce di conoscere il perchè
di questa mia insoddisfazione.

C'è qualcosa che amo.
C'è qualcosa che mi piace.
C'è qualcosa che mi desidera.
C'è qualcosa che vorrei.
C'è qualcosa che odio.
C'è qualcosa a cui ambisco.
C'è qualcosa che mi infastidisce.
C'è qualcosa che mi fa star bene.

Come qualsiasi altra persona.
E come è sempre stato.

Eppure mi sento così profondamente
insoddisfatta,
come un cardellino con le ali rotte,
o forse come un cardellino
che le ali non le ha mai avute.



Che poi, ora che ci penso,
anni fa mi ero trovata a pensare delle cose.
Avevo attraversato un periodo
in cui mi ero persa
e per ritrovarmi ho dovuto a lungo appoggiarmi
agli altri,
perchè non c'era nessuno che capisse
quello che ero.
Nessuno che mi accettasse così.

E mi sono uniformata,
se ci penso bene.
Come se le ali le avessi avute
ma avessi anche deciso di tagliarle.

E se ora ho risentito il Vento
e conosciuto la sua esistenza,
è possibile che esso mi abbia appena fatto ricordare
di essermi proibita il volo
da sola?
E' possibile che ora scopra di non essere stata completamente
io,
quella che aveva rinunciato alle ali per volare?

Ed è possibile
che voglia tornare
a
seguire
il mio
Vento,
perchè non posso
più
farne a meno?

27 aprile 2009

Anjhar - Cap.2

I numeri delle stanze di ogni ragazzo erano stati distribuiti quella stessa mattina, poco dopo gli esami, e la ragazzina che avevamo lasciato entrare in quell’anonimo mini appartamento dei dormitori, aveva deciso di trasferirvisi subito, senza alcuna perdita di tempo. Le sue valige avevano, dunque, cominciato ad arredare la stanza già da qualche ora e adesso che era tornata, sollevata per l’esito positivo degli esami, sebbene non avesse comunque avuto alcun dubbio, decise di sistemare i vestiti all’interno dell’armadio. Aperta la valigia, tirò fuori diverse paia di jeans, un paio di camicette e per il resto un insieme di magliette più o meno colorate, dall’aspetto piuttosto scialbo. Le piegò con cura, ben attenta ad occupare solo la propria metà di spazio, quindi si sedette sulla piccola sedia lì di fronte, le ante ancora aperte, e prese a fissare l’interno del mobile. I suoi pensieri vagavano da un’idea all’altra, distratti di continuo da ricordi vecchi e nuovi, e lo sguardo si fece vacuo, perso in una distrazione che l’accompagnava spesso. Solo dopo alcuni minuti, quando la serratura schioccò, si rese conto che qualcuno stava facendo il suo ingresso e sussultando si voltò verso la porta. Il cuore cominciò a batterle un po’ più veloce, ed il viso, fino a quel momento completamente rilassato, assunse un colore più pallido e un’aria più tesa, così come il resto del corpo. Stava per conoscere la sua Guida, che sarebbe rimasta in camera con lei per il resto dei tre anni successivi. Deglutì, quando finalmente dalla porta stava per affacciarsi qualcuno, e smise di respirare per qualche secondo, rischiando il soffocamento. Infine, finalmente Gabriel fece il suo ingresso.
Gli occhi del ragazzo, scuri ma in quel momento dotati di un’ostentata indifferenza, si posarono immediatamente su Natalie, senza nemmeno il tentativo di accennare un sorriso. Entrò all’interno della stanza, e richiuse la porta d’ingresso alle sue spalle, poco prima di mostrarsi perplesso alla vista dell’armadio già pieno a metà. <<..cia..>> il debole tentativo di saluto della ragazzina, fu smorzato presto dallo sbattere della seconda porta, quella della stanza da letto del ragazzo.
La fissò a lungo, sbattendo più volte le palpebre, dapprima stupita ed impreparata ad un simile comportamento, quindi rossa di rabbia. <<..potresti almeno presentarti, eh!>> esclamò quindi, e nelle sue parole si leggeva di già un forte risentimento. Dalla stanza da letto del ragazzo, però, non giunse nessuna risposta, escluso un forte sbuffare seguito dal silenzio più totale. La ragazzina ci provò di nuovo, stavolta con più garbo ed uno sforzo decisamente maggiore di mantenersi cortese <> di nuovo silenzio, poi un vago mormorio <>. Una presentazione che sembrava non bastarle. Tentando di mantenersi ancora tranquilla, si avvicinò alla sua porta <> esitò per qualche istante, indecisa su cosa dire, quindi, a seguito del silenzio insistente, fu lei stessa a sbuffare, portando lo sguardo al cielo. Serrò le labbra, decisa a non dire più una parola, e gettò a caso nell’armadio qualche altro vestito preso dalla valigia, tra cui una misera gonna stropicciata, che sembrava nuova, finché, arresasi alla scortesia del ragazzo, non tornò a sedersi sulla sedia di poco prima, fissando la stanza d’ingresso, vuota.

Quando Gabriel uscì finalmente dalla sua stanza, Natalie era già andata via da un pezzo, ricambiandolo con la stessa moneta da lui usata: nemmeno il minimo saluto.
Sollevato ma al tempo stesso ancora nervoso, il ragazzo diede ancora uno sguardo all’armadio, stavolta ben chiuso, senza curarsi di ordinare le sue cose, che sarebbero rimaste in disordine ma perlomeno al sicuro, nella sua stanza. Se c’era una cosa che odiava –ed in verità ce n’erano davvero tante- era che qualcuno mettesse mano ai suoi vestiti. Sbuffò, angustiato dal pensiero della convivenza con quella ragazzina, e borbottò qualcosa tra sé, stizzito alla sola idea. Se perlomeno avessero avuto la possibilità di scegliere i propri Allievi, non sarebbe stata una cosa poi tanto pesante. Invece il preside, Paul Wigner, da qualche anno aveva introdotto la scelta casuale delle coppie, dando il via ad una serie infinita di polemiche, ma anche mettendo fine ad altrettante discussioni che avevano visto protagonisti, negli anni precedenti, Guide che volevano lo stesso Allievo o viceversa, arrivando persino alle mani, e non in maniera poi tanto lieve.
Decise di uscire poco dopo, richiudendo la porta della stanza alle proprie spalle, con un gesto secco e deciso. Fu quando il rumore forte della serratura che scattava raggiunse le sue orecchie che si udì la sua voce imprecare per l’intero corridoio. Mordendosi il labbro inferiore, diede una spinta rassegnata alla porta ormai ben chiusa, e tentò, naturalmente senza alcun risultato, di riaprirla dalla maniglia senza l’uso della chiave. La porta lo osservava sorniona, ferma al suo posto, senza scostarsi minimamente in nessuna direzione. Nonostante il crescente nervosismo, comunque, il ragazzo parve concludere che fosse meglio chiedere una mano a qualcuno, che non sfondare la porta rischiando la sospensione immediata. Arresosi, cominciò a camminare lungo i corridoi rossicci della struttura dei dormitori, in direzione dell’ala dei Professori.

26 aprile 2009

Anjhar - Cap.1

L’aria pesante del vuoto intorno alla Torre, quella mattina pareva più prepotente del consueto. Si respirava a fatica, umida com’era, e trasmetteva una stanchezza ed un’insoddisfazione palpabili, difficili da ignorare.
C’è da dire che di vento ce n’era, come d’altronde ogni giorno: sarebbe stato un evento da ricordare, l’assenza di movimento nell’aria di Sadriel o di una qualunque delle Torri. E invece quello appariva un giorno come un altro, solo un poco più lento, un poco più pigro, ma che, come tutti, sarebbe passato.
La nebbia, altro elemento mai assente di quel posto, era questa volta più spessa, e circondava ogni spigolo isolandolo dal resto del mondo, quasi a proteggerlo da ciò che accadeva di fuori. Persino i suoni parevano risentire dello spessore dell’aria, tanto che il silenzio sembrava più insistente, e forse lo era da parlare lui stesso alle centinaia di persone che attendevano sulla grande terrazza di Sadriel, intimandogli dolcemente ma con decisione di sussurrare. “Mantenete bassi i toni” sembrava dire “e continuate a sperare. Pregate” gli chiedeva. E quel colore viola, livido come una ferita mai guarita, e vivo, intenso, sanguinante, posava nei loro cuori la paura che, più di quanto qualunque altra cosa avrebbe potuto fare, li spingeva ad obbedirle.
Il colore viola negli ultimi tempi era decisamente divenuto un segnale d’allarme, eppure, appena qualche mese, forse un anno prima, nulla avrebbe fatto presagire un cambiamento così repentino ed improvviso.
Forse è necessario cominciare la narrazione dal momento in cui ogni pezzo aveva cominciato a trovare una sua collocazione e lentamente ogni cosa era andata al suo posto, creando e al tempo stesso distruggendo molte vite.

Il momento più vicino all’inizio di questa storia, risale al giorno degli esami delle due scuole di Sadriel. Giorno che vide protagonisti due ragazzi che percorreranno il resto del racconto come personaggi principali.

Era la stagione di mezzo tra estate e inverno, in cui le temperature cominciavano a calare, regalando un’aria frizzante e ricca di vita, memori dell’afa estiva ormai esausta e carichi dell’elettricità dei venti invernali. Sulla Torre di Sadriel sembrava esserci una scintilla di vivacità più intensa del solito. I ragazzi, grandi e piccoli, apparivano tesi, ed in molti mostravano un pallore innaturale che ne caratterizzava l’ansia evidente; gli adulti, la cui presenza stessa lasciava presupporre che fosse un giorno importante, si affacciavano alla terrazza e chiacchieravano tra loro, chi rassicurando i propri figli, chi cercando di ingannare il tempo con qualche rimprovero o raccomandazione.
Nel momento in cui la luce della fiaccola centrale assunse un colore roseo, la folla intera si voltò verso di essa, ed il brusio si fece più forte, così come la tensione, che regalò ai letti dell’infermeria un paio di vittime in più, tra i ragazzi più grandi, che evidentemente avevano avuto un piccolo calo di pressione. “Nulla di grave” avrebbe assicurato l’infermiera pochi minuti dopo “è solo lo stress”. Ed in effetti, non era la prima volta che accadeva, né, per quanto ne sapevano loro, sarebbe stata l’ultima.
La fiaccola brillò di quel colore caldo e acceso per parecchi minuti, finchè non si fu certi che tutti l’avessero vista. Quando, infine, tornò ad assumere la consueta tonalità arancione, la gente si voltò verso le porte principali, che vennero lentamente aperte, dando loro la possibilità di entrare all’interno dei corridoi della Scuola.
La calca non si dissolse se non dopo parecchi minuti, quando ormai tutti, con delusione o soddisfazione, erano venuti a conoscenza del proprio risultato e la maggioranza dei ragazzi, quelli che erano stati ammessi, tirava finalmente un sospiro di sollievo. I volti ripresero colore, e si tinsero persino di qualche risata, che esorcizzava ogni paura che fino a quel momento ne aveva impedito il manifestarsi.
Tra i ragazzi ammessi, appariva una figura piuttosto minuta, che camminava spedita verso quello che, a giudicare dall’aspetto, doveva essere un parente, forse il fratello maggiore. Dopo un veloce bacio sulla guancia, ed un saluto appena accennato, la ragazza corse via, imboccando uno delle migliaia di corridoi della Torre, che conduceva alla sua stanza e raggiungendo presto una delle porte assolutamente anonime dei dormitori.

Anche quel giorno il cielo era di colore viola, ma di una tonalità tenue, debole, incerta, e la nebbia pareva meno fitta, il vento tranquillo ma sempre presente. C’era il sole, sebbene fosse visibile solo attraverso una fitta ed indecisa coltre di nubi grigiastre e malaticce, e la giornata sembrava piuttosto promettente, dato l’esito degli esami, che avevano visto oltre la metà dei ragazzi ammessi alle due Scuole principali.
Ciò nonostante, o forse sarebbe meglio dire proprio per queste ragioni, non tutti sembravano tranquilli ed in particolare un ragazzo, da poco poggiato in un angolo in ombra della terrazza grande, appariva più che mai inquieto. Il suo nome era Gabriel Kenneth, anche conosciuto come Lupo, per ragioni di cui solo in pochi erano al corrente. Portava una polo chiara, su dei jeans quasi neri, dall’aria di essere non troppo nuovi, eppure calzati con ostentata sicurezza. I suoi capelli erano scuri, in disordine sulla testa, con la tendenza a cadergli sulla fronte coprendone lo sguardo altrettanto adombrato. Le labbra, sottili e precise, erano in quel momento increspate, piegate in una smorfia che faceva a pugni con le risa dei ragazzi poco più avanti. La tensione che, nonostante la buona notizia dell’ammissione alla Scuola di Sayshan, ancora sembrava irrigidirgli le membra, era dovuta a suo parere alla questione delle Guide.
Ogni ragazzo che frequentava il primo anno della Scuola di Sayshan, infatti, aveva l’obbligo di prendere sotto la sua custodia un ragazzo più piccolo, tra coloro che erano stati appena ammessi alla Scuola di Chyan, dalla quale loro erano invece appena usciti. Nel corso dei tre anni successivi, quindi, si sarebbe preso l’impegno di responsabilizzarlo ed educarlo alla vita scolastica, così da poter fare lo stesso, una volta superato l’esame finale della scuola inferiore.
Gabriel, dunque, come tutti i ragazzi della sua età, aveva conseguito gli studi per tre anni, accompagnato dalla sua Guida, Jeff Keen, ed era per lui giunto il momento di diventarlo a sua volta, scontrandosi con tutto ciò che questo avrebbe comportato.
La sua radicata convinzione che l’esistenza delle Guide fosse inutile, era già di per sé un buon motivo per cui, secondo lo studente, avrebbe dovuto avere il diritto di contestare questa regola. Eppure, a questo si aggiungeva qualcosa di decisamente più importante e che gli portava una preoccupazione maggiore. Ciò che, tutto sommato, lo preoccupava maggiormente, erano i suoi continui sbalzi di umore.
Non che fosse mai stato un ragazzo tranquillo, certamente, ma nell’ultimo periodo si era trovato spesso in situazioni che, nonostante le ragioni non fossero mai particolarmente rilevanti, lo portavano dalla più completa indifferenza, all’ira più feroce: temeva, quindi, che il suo temperamento tutt’altro che tranquillo lo avrebbe portato a scontrarsi con il suo Allievo provocando conseguenze decisamente non desiderabili.
Si fosse trattato semplicemente di qualche scatto d’ira, naturalmente non sarebbe stato un problema, se non per il suo Allievo, di cui, in tutta sincerità, a lui sarebbe importato davvero poco. Invece la questione era di tutt’altro genere.