28 maggio 2009

La voce di chi legge

La voce di chi legge si dispiega alta,
apre le sue ali quando il pubblico tende lievemente il corpo in avanti deciso a degnare d’attenzione qualche parola.
Oppure delle volte chi legge vola da solo, ignorando le parole degli altri, ignorando il rumore di suoni mai scritti e di parole pronunciate a caso.


La voce di chi legge si libra leggera nell’aria.

Comincia con un soffio, sorridendo al vento che le permette la vita, si innalza libera verso chi la accoglie, e poi veloce si affievolisce, svanendo in un respiro, come era nata.


La voce di chi legge si incrina di emozione,

si ferma e riprende, catturando l’aria gentile che ne dipinge i colori. Ride, sorride, piange forte o si infuria, astuta e tagliente, morbida o spenta.


La voce di chi legge spesso decide di consolare se stessa

e godere da sola del proprio suono, accarezzando il proprio corpo e provando il piacere della sua stessa esistenza.

Prende vita, si anima e danza per raccontare delle storie, come musica si allontana, come musica riempie il vuoto, come musica scompare e ritorna, una litania dalle migliaia di madri.


La voce di chi legge è strumento di ogni volto,

è anima di ogni corpo, è corda di ogni cuore.


La voce di chi legge, unica e sola, mai domata,

scivola lungo il filo del domani, scavalca i ricordi, corre in avanti e torna indietro in un solo istante.
Essa frantuma il tempo, elude i secondi, chiude gli occhi alle ore.


La voce di chi legge, spegne le distanze e si fonde con l’infinito.


(S.W.A.)

15 maggio 2009

Nuvole grige

Forse sono qui per quella magia.
La magia che con queste parole, cullate come ora dalle note di Eiunaudi, ti aveva fatto tornare.
Sono qui nella speranza di sentire ancora una volta quel telefono squillare.
Quel cuore battere, così lontano. Per me. Ancora una volta.
E' un filo sempre più sottile, tanto delicato, esposto al vento, in pericolo continuo. Eppure ben curato, ed entrambe, sembrerebbe, lo proteggiamo con cura, lo facciamo da mesi, ormai.
Un filo che attraversa delle campagne bellissime, quelle italiane, che attraversa posti tristi e dimenticati, che attraversa folle in delirio, bambini che dormono, anziani che ridono. Un filo che lentamente arriva fino a te e trascina da te questa musica.
Trascina da te queste parole d'amore che ti voglio regalare, cuore mio, e vorrei che non si spezzasse mai.
Eppure sono qui ad occhi semi chiusi, occhi che conoscono una recente stanchezza, occhi che vogliono vivere, occhi che desiderano i tuoi, occhi che ti cercano, occhi che ti vedono in ogni cosa, e penso a te.
Le labbra inumidite spesso e più spesso secche. Labbra che, mute, si domandano cos'è successo, questa sera. Cosa ti ha reso inquieta. Perchè cerchi la solitudine.
Labbra e occhi che si rispondono in mille maniere. Che sperano che come la volta scorsa perseverando nel desiderarlo, tornerai da loro.
Labbra e occhi che temono risposte che non gli permetterebbero di danzare insieme, l'une aperte per urlare, gli altri chiusi per non guardare.
Una testa piena di idee ed al tempo stesso vuota, senza il pensiero di te che cerca di allontanare.
Una fronte corrugata, inquieta, aspra per questa sera, e piena di domande. Anche lei.
Come me.
Lo domando a me stessa. Lo domando a Voi, invisibili lettori inesistenti.
E' peggiore l'ammalato o chi è stato ucciso dalla malattia?
E' peggiore il sofferente o chi di dolore è morto?
Da parte mia l'ho domandato spesso ai fantasmi in cui ho sempre creduto.
Non mi hanno mai risposto. Cambiavano forme colori. Non mi hanno mai risposto.
Ma in questo momento, ed è ciò che conta, amore mio, preferirei sapere di aver sbagliato per poter rimediare, piuttosto che ignorare se esista un danno, e se sia riparabile. Vorrei lo sapessi. Vorrei non pensassi che non ti capisco. Vorrei non pensassi che sono arrabbiata.
Amareggiata è la parola giusta.
Non mi importa di una bugia.
Ciò che mi importa
sei tu.
Vorrei che lo capissi..vorrei che non mi abbandonassi..
..eppure la mia immaginazione mi distrugge, mi strappa le carni, mi lacera e nemmeno lentamente.
Mi stai ferendo, ma so che non è colpa tua. Solo, non dire che è mia.
I pensieri mi vincono.
Si.
Sono debole.

13 maggio 2009

Anjhar - Cap.3

Avanzò lungo i corridoi circolari che correvano nella parte più esterna della Torre, avvolgendosi l’uno sull’altro. Porte color legno, con un piccolo numero nella parte superiore, che si affacciava ben visibile a chiunque, un battiscopa di qualche centimetro, in pietra giallastra, e tante, troppe piastrelle monocromatiche, che si susseguivano senza dar mai l’impressione di volersi fermare, diventavano la norma, per chi viveva a Sadriel, e presto, al termine della scuola, anche un nostalgico ricordo. I nuovi studenti, non ancora abituati alla monotonia dei dormitori delle Scuole, né alla loro disposizione, generalmente passavano gran parte delle loro giornate a perdersi tra una salita e l’altra, cominciando a comprendere la semplicità di tale struttura solo dopo parecchi mesi. Raggiunto l’anno, in genere quasi tutti riuscivano ad orientarsi ottimamente, e si rendevano conto di quanto in realtà i corridoi sempre uguali, uguali non lo fossero affatto.
Per Gabriel, che ormai aveva frequentato la Scuola di Chyan fin troppo a lungo a suo parere, i dormitori non avevano più alcun segreto –ammesso che ve ne fosse mai stato uno- e li percorreva senza nemmeno distogliere lo sguardo dalle piastrelle, raggiungendo i posti desiderati nel minor tempo possibile.
Sebbene conoscesse a memoria ogni passaggio ed ogni scorciatoia tra un corridoio e l’altro, però, lo stesso Gabriel, anche a passo veloce, impiegava parecchi minuti a raggiungere l’ala della Torre dove risiedevano gli studi dei Professori. Passò dunque parecchio tempo, da che uscì dalla sua stanza, prima che il ragazzo arrivasse, affannato e piuttosto stizzito, davanti alla porta dell’ufficio della Coordinatrice.
La porta era di legno d’ebano, al termine di un piccolo slargo tra i corridoi. Le pareti che l’affiancavano erano tutt’altro che spoglie, piene di bacheche e annunci persino più di quelle davanti alle classi, e vi si trovavano spesso volantini e avvisi delle varie Associazioni Sportive o Festività e Ricorrenze. Un piccolo tappetino arancione, della stessa tonalità delle pareti, precedeva l’ingresso di chi vi si presentasse, ed un cartellino giallo con una piccola scritta nera, era appeso al centro della porta, svelando senza esitare il perché di tanti manifesti: “Coordinatore”.
Solo un paio di sedie dall’aria scomoda accoglievano chi attendeva il suo turno, ma il ragazzo preferì sedersi per terra, riprendendo fiato lentamente. Si chiese perché mai non avesse pensato a prendere le chiavi ma, a questo pensiero, seguì quello immediatamente successivo che aveva cercato di evitare per la durata dell’intera camminata, quello della sua nuova Allieva. Digrignò i denti, ed il suo nervosismo parve aumentare, tanto che i pugni di entrambe le mani si strinsero con forza, e dovette inspirare profondamente prima di tornare più tranquillo.
Prima di entrare per la prima volta a Sadriel, i suoi problemi di autocontrollo erano stati notevoli. Bastava la minima scintilla per provocare l’irreparabile, e sua madre era piuttosto scettica riguardo ad un suo possibile ingresso nelle Scuole di Sadriel, in cui in genere ammettevano solo studenti di medio livello e semplici da gestire. Era stata lei stessa, però, ad imporgli di fare un tentativo agli esami di ammissione, sperando forse, così, di allontanare gl’incubi che ormai da anni la tormentavano. Se suo figlio fosse entrato a Sadriel come studente, il ragazzo avrebbe finalmente avuto la possibilità di trascorrere un’esistenza del tutto simile a quella dei suoi coetanei, sebbene forse un poco più prudente, ed i suoi sensi di colpa sarebbero diminuiti. Avrebbe potuto redimersi dalla colpa di aver amato “quell’uomo”, come usava definire il padre di Gabriel. O, perlomeno, di questo era convinta il giorno che andò a parlare con lo Shouma.
Una volta che ebbe ripreso fiato -e gli bastarono pochi minuti- si passò una mano tra i capelli, rimproverandosi di non aver ancora bussato. Si sollevò stancamente da terra, quindi con un paio di colpi alla porta, attese che il Coordinatore rispondesse in qualche modo. Quando la porta si aprì, tirò un sospiro di sollievo, ma il volto non fece in tempo ad ostentare un’espressione più tranquilla, sorpreso questa volta dalla persona che gli si presentò di fronte.

'Salve, dove posso trovare il Coordinatore scolastico' domandò cortese dopo qualche istante di esitazione alla giovane donna che aveva davanti, tentando inutilmente di spiare alle sue spalle. Ella inclinò appena la testa verso destra, quindi le sue labbra, piuttosto carnose e colorate di rosso scuro, si aprirono in un sorriso gentile 'Salve a te. Sono Naomi Holdey, la nuova Coordinatrice' la donna, dalla carnagione scura ed i capelli lunghi, neri, legati in una treccia che le ricadeva lungo una spalla, gli porse la mano 'ehm..piacere..sa dov’è Keith?' l’espressione perplessa di Gabriel, mentre le stringeva la mano, era piuttosto palese, eppure la donna non fece una piega ed anzi, allargò il suo sorriso mostrando dei denti bianchi, ben in ordine 'Keith Gekam? Immagino sia andato in pensione, lavorava qui da anni se non sbaglio' ghignò appena, ma nonostante quell’espressione il suo volto appariva animato da una positività non comune. I suoi tratti erano esotici, forti ma addolciti dalle curve lente degli zigomi, che si gonfiavano appena quando sorrideva. Le sopracciglia erano marcate ma ben delineate, e le donavano uno sguardo severo, sebbene mai burbero. Gli occhi un poco a mandorla, scuri e attenti. Il naso appena un poco schiacciato. Nel complesso, si trattava di una bella donna, visibilmente energica ma slanciata.
Ciò che più spiccava del suo aspetto, quel giorno, era però l’abito. Un vestito lungo, dalle maniche leggere e piuttosto larghe, che si chiudevano sui gomiti per poi riaprirsi verso i polsi. Disegni arcaici ne decoravano le pieghe ed i bordi, e spiccavano, neri, sul fondo arancio vivo del tessuto.
Dopo le parole di Naomi, seguì un silenzio carico di tensione, perlomeno dalla parte di Gabriel. Il ragazzo la osservava con attenzione e curiosità, ed ella lo lasciava fare senza scomporsi, ragion per cui dopo qualche istante il ragazzo si sentì in dovere di rompere il silenzio con un congedo veloce '' salutò, chinando appena il capo. La donna lo osservò perplessa allontanarsi a passo svelto, e con un sorriso lo fermò chiamando il suo nome 'Gabriel? Non ti serve nulla?' Gabriel si voltò incerto, la fronte corrugata, le labbra serrate in una smorfia lieve. Tale espressione si tese qualche secondo dopo, quando portò una mano sulla fronte, con un movimento veloce 'le chiavi!' esclamò, chiedendosi come avesse potuto dimenticare il motivo per cui era venuto lì. La donna, fattasi dire il codice della camera, lo accompagnò fino all’ingresso di essa e con la chiave “universale” in possesso dei Coordinatori, gli permise di entrarvi. Solo più tardi, lo studente cominciò a domandarsi come avesse potuto conoscere il suo nome.

5 maggio 2009

Una chiamata.

Ma tu l'hai già spento, amore.
Ti chiamo, per dirti che va tutto bene, che ho sistemato ogni cosa, che non c'è bisogno di nessuna lama per tagliare nulla. Ti chiamo per dirti che ti adoro, che non è vero niente, che una persona che sceglierebbe te c'è, l'hai trovata. Ma mi hai già detto che le parole non servono a niente e che sono scivolate dalle labbra di qualcuno troppe volte per crederci ancora. Lo sapevo e te l'ho suggerito, nell'insicurezza del domani. Nell'insicurezza del domani ho scelto il silenzio.
Ma poi ti chiamo, amore, ti chiamo e busso al tuo telefono chiedendo 'permesso', sperando che mi aprirai le porte lasciandomi sfiorare il tuo cuore.
Ma tu l'hai già spento, amore.